La risposta del popolo Saharawi alla Globalizzazione costretto da trenta anni a vivere in un campo profughi e a combattere per la propria auto-determinazione, per l’indipendenza e per il riconoscimento della propria identità come individui e come popolo contro il potere marocchino e l’alternata indifferenza dell’Occidente.
La globalizzazione è un’opportunità o una minaccia? Per rispondere a questa domanda si potrebbero mettere a confronto le molteplici tesi global e no global che si sono sviluppate per analizzare il fenomeno. Ma ne cito solo alcune. L’idea di “villaggio globale” di Mc Luhan secondo cui i processi di globalizzazione in atto si muovono tra locale e globale, cioè in uno spazio piccolo, locale rappresentato dal luogo in cui viviamo, immersi però in un contesto globale grazie all’immediatezza con cui è possibile collegarsi con l’intero pianeta.
O l’idea di “Mcdonaldizzazione” definita dal sociologo Ritzer come un processo di omologazione e spersonalizzazione che con i suoi prodotti ha favorito l’universalizzazione e l’unificazione su scala mondiale di istituzioni, simboli e stili di comportamento, occupando un posto di primo piano nelle scelte della cultura di massa. Infatti secondo Naomi Klein la società occidentale “è vinta dal branding”, cioè soggiogata culturalmente dalla promozione dei marchi.
Invece secondo Robertson, uno degli autori della cultural theory, locale e globale non si escludono. Ma si può parlare di glocalizzazione nel senso che il locale deve essere compreso come un aspetto del globale e che in questo clash of localities è possibile misurarsi e confrontarsi su concetti come politics of culture, cultural capital, cultural difference.
Ma cosa risponderebbe un popolo del Terzo Mondo se gli venisse chiesto di prendere una posizione nei confronti del fenomeno globalizzazione?
Nel marzo 2003 insieme ad una delegazione di volontari sono stata in un campo profughi, nel deserto di Tindouf in Algeria, dove da più di trenta anni i Saharawi vivono in esilio sostenuti unicamente dalla macchina economica e sociale messa in moto dagli aiuti umanitari e dai volontari di molti paesi del mondo, tra cui l’Italia e la Spagna. Nelle scorse settimane la loro storia e la loro tragedia ha avuto finalmente un’eco nazionale grazie ai servizi, anche in loco, di alcune testate televisive e di stampa. Probabilmente oggi un numero maggiore di italiani sa che i Saharawi erano una tribù nomade che viveva nella pescosissima e ricca area del Sahara occidentale. Sa che a causa dell’invasione militare da parte del governo marocchino nel loro territorio, i Saharawi sono stati costretti alla fuga e ad abbandonare amici e parenti che non sono riusciti a fuggire ma portando con sé le loro radici storiche, religiose, culturali, politiche e sociali. Dunque non è anche grazie alla globalizzazione dell’informazione e della comunicazione che è possibile avere la percezione di realtà a noi lontanissime anche in tempo reale? Senza la globalizzazione e senza questo continuo flusso di scambi, di immagini, di informazioni, di dati avremmo mai immaginato che esistono ancora popoli che vivono e lottano per l’affermazione della propria identità, della propria auto-determinazione e della propria libertà? Avendo conosciuto i Saharawi e avendo vissuto a stretto contatto con loro nelle loro umilissime abitazioni di sabbia, credo di poter tranquillamente affermare che siano felici che le loro vite inizino ad essere prese in considerazione anche dall’opinione pubblica. In questo senso non possono che approvare i processi globali che favoriscono il crollo dei confini spazio-temporali e la scoperta di altrove sconosciuti e lontani.
Secondo i Saharawi “la globalizzazione è un fenomeno inarrestabile e per questo tutti i popoli e gli individui dovrebbero avere la possibilità e la capacità di coglierne soprattutto gli aspetti positivi, tanto esaltati dai suoi fautori, come il commercio internazionale e lo sviluppo e la diffusione di tecnologie sempre più avanzate. Ma è evidente che a beneficiare dei frutti di un commercio libero e globale e del progresso tecnico e scientifico siano soprattutto i cosiddetti paesi sviluppati. Solo chi dispone di mezzi e di strumenti adeguati può essere protagonista attivo nella rete globale. Chi invece ne resta escluso, come noi, vive in gabbia fuori dal villaggio globale e vede la globalizzazione come una minaccia perché risente soprattutto dei suoi effetti negativi: l’isolamento, la localizzazione, l’alienazione e la consapevolezza di essere esclusi sia come individui sia come società per l’impossibilità di essere competitivi nel mercato globale che crea disuguaglianze sempre più marcate tra poveri e ricchi del mondo e sfugge ad ogni tipo di controllo.” Inoltre è sempre più forte il rischio che si affermi un solo modello dominante, quello americano, pericolosa minaccia alla democrazia e al rispetto delle libertà e delle scelte individuali. Ma non si tratta solo di discutere degli aspetti economici e politici della globalizzazione. Le nuove tecnologie generano discriminazioni verso chi non può permettersi di navigare in rete o anche semplicemente non può comprare un giornale e informarsi perché non ha i soldi per comprarlo o perché vive in zone del mondo così povere che l’informazione è inesistente. Per i Saharawi tutto questo è inammissibile perché “siamo consapevoli che oggi i media hanno acquisito sempre più potere e l’impossibilità di fare informazione e di riceverla è un limite enorme. Nell’era della globalizzazione solo le grandi potenze economiche, che si sono arrogate il diritto di scegliere per tutti, si sono integrate nel villaggio globale. Fin quando prevarrà il libero mercato per il massimo profitto e non si terrà conto anche delle esigenze primarie dei popoli sottosviluppati ed emarginati, la globalizzazione resterà solo un sogno per pochi e un incubo per tutti quegli individui che, come noi, vivono il fenomeno ai margini e da emarginati”.
La globalizzazione è un’opportunità o una minaccia? Per rispondere a questa domanda si potrebbero mettere a confronto le molteplici tesi global e no global che si sono sviluppate per analizzare il fenomeno. Ma ne cito solo alcune. L’idea di “villaggio globale” di Mc Luhan secondo cui i processi di globalizzazione in atto si muovono tra locale e globale, cioè in uno spazio piccolo, locale rappresentato dal luogo in cui viviamo, immersi però in un contesto globale grazie all’immediatezza con cui è possibile collegarsi con l’intero pianeta.
O l’idea di “Mcdonaldizzazione” definita dal sociologo Ritzer come un processo di omologazione e spersonalizzazione che con i suoi prodotti ha favorito l’universalizzazione e l’unificazione su scala mondiale di istituzioni, simboli e stili di comportamento, occupando un posto di primo piano nelle scelte della cultura di massa. Infatti secondo Naomi Klein la società occidentale “è vinta dal branding”, cioè soggiogata culturalmente dalla promozione dei marchi.
Invece secondo Robertson, uno degli autori della cultural theory, locale e globale non si escludono. Ma si può parlare di glocalizzazione nel senso che il locale deve essere compreso come un aspetto del globale e che in questo clash of localities è possibile misurarsi e confrontarsi su concetti come politics of culture, cultural capital, cultural difference.
Ma cosa risponderebbe un popolo del Terzo Mondo se gli venisse chiesto di prendere una posizione nei confronti del fenomeno globalizzazione?
Nel marzo 2003 insieme ad una delegazione di volontari sono stata in un campo profughi, nel deserto di Tindouf in Algeria, dove da più di trenta anni i Saharawi vivono in esilio sostenuti unicamente dalla macchina economica e sociale messa in moto dagli aiuti umanitari e dai volontari di molti paesi del mondo, tra cui l’Italia e la Spagna. Nelle scorse settimane la loro storia e la loro tragedia ha avuto finalmente un’eco nazionale grazie ai servizi, anche in loco, di alcune testate televisive e di stampa. Probabilmente oggi un numero maggiore di italiani sa che i Saharawi erano una tribù nomade che viveva nella pescosissima e ricca area del Sahara occidentale. Sa che a causa dell’invasione militare da parte del governo marocchino nel loro territorio, i Saharawi sono stati costretti alla fuga e ad abbandonare amici e parenti che non sono riusciti a fuggire ma portando con sé le loro radici storiche, religiose, culturali, politiche e sociali. Dunque non è anche grazie alla globalizzazione dell’informazione e della comunicazione che è possibile avere la percezione di realtà a noi lontanissime anche in tempo reale? Senza la globalizzazione e senza questo continuo flusso di scambi, di immagini, di informazioni, di dati avremmo mai immaginato che esistono ancora popoli che vivono e lottano per l’affermazione della propria identità, della propria auto-determinazione e della propria libertà? Avendo conosciuto i Saharawi e avendo vissuto a stretto contatto con loro nelle loro umilissime abitazioni di sabbia, credo di poter tranquillamente affermare che siano felici che le loro vite inizino ad essere prese in considerazione anche dall’opinione pubblica. In questo senso non possono che approvare i processi globali che favoriscono il crollo dei confini spazio-temporali e la scoperta di altrove sconosciuti e lontani.
Secondo i Saharawi “la globalizzazione è un fenomeno inarrestabile e per questo tutti i popoli e gli individui dovrebbero avere la possibilità e la capacità di coglierne soprattutto gli aspetti positivi, tanto esaltati dai suoi fautori, come il commercio internazionale e lo sviluppo e la diffusione di tecnologie sempre più avanzate. Ma è evidente che a beneficiare dei frutti di un commercio libero e globale e del progresso tecnico e scientifico siano soprattutto i cosiddetti paesi sviluppati. Solo chi dispone di mezzi e di strumenti adeguati può essere protagonista attivo nella rete globale. Chi invece ne resta escluso, come noi, vive in gabbia fuori dal villaggio globale e vede la globalizzazione come una minaccia perché risente soprattutto dei suoi effetti negativi: l’isolamento, la localizzazione, l’alienazione e la consapevolezza di essere esclusi sia come individui sia come società per l’impossibilità di essere competitivi nel mercato globale che crea disuguaglianze sempre più marcate tra poveri e ricchi del mondo e sfugge ad ogni tipo di controllo.” Inoltre è sempre più forte il rischio che si affermi un solo modello dominante, quello americano, pericolosa minaccia alla democrazia e al rispetto delle libertà e delle scelte individuali. Ma non si tratta solo di discutere degli aspetti economici e politici della globalizzazione. Le nuove tecnologie generano discriminazioni verso chi non può permettersi di navigare in rete o anche semplicemente non può comprare un giornale e informarsi perché non ha i soldi per comprarlo o perché vive in zone del mondo così povere che l’informazione è inesistente. Per i Saharawi tutto questo è inammissibile perché “siamo consapevoli che oggi i media hanno acquisito sempre più potere e l’impossibilità di fare informazione e di riceverla è un limite enorme. Nell’era della globalizzazione solo le grandi potenze economiche, che si sono arrogate il diritto di scegliere per tutti, si sono integrate nel villaggio globale. Fin quando prevarrà il libero mercato per il massimo profitto e non si terrà conto anche delle esigenze primarie dei popoli sottosviluppati ed emarginati, la globalizzazione resterà solo un sogno per pochi e un incubo per tutti quegli individui che, come noi, vivono il fenomeno ai margini e da emarginati”.
Giorgia Gazzetti
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