da RomaSette.it
Gli scatti di Cristian Gennari raccontano i 34 anni di esilio dei Saharawi. Le iniziative dell'associazione Bambini+Diritti in favore del diritto all'educazione di Giorgia Gazzetti
Quaranta foto e otto parole: silenzio, accoglienza, non-terra, r-esistenza, forza, leggerezza, educazione, autodeterminazione. Sono questi gli strumenti utilizzati nella mostra fotografica “Il popolo di sabbia”, inaugurata l’altro ieri (9 dicembre 2009) presso la Sala del Mitreo (via M. Mazzacurati, 61) dall’associazione di promozione sociale Bambini+Diritti, dal XV Municipio e dalla Fondazione Mondo Digitale, per raccontare 34 anni di esilio del popolo Saharawi, costretto a vivere nei campi profughi nel deserto di Tindouf, in Algeria, in seguito all’invasione marocchina della loro terra, il Sahara Occidentale, dopo la fine del regime franchista.
Aperta al pubblico fino al 16 dicembre, sono scene di vita quotidiana e non solo, le immagini immortalate attraverso un volto, un paesaggio, una tenda, un’azione dal reporter Cristian Gennari – collaboratore di Roma Sette e di Romasette.it – in occasione di una spedizione nei campi profughi avvenuta nel marzo scorso e a cui hanno partecipato anche due studentesse romane, Almira Licina e Valeria Ronca, durante una delle fasi finali del progetto Digital Bridge. «L’obiettivo del progetto, finanziato dalla Regione Lazio – afferma Matteo Mennini, presidente di Bambini+Diritti – è quello di formare curricula informatici nelle scuole primarie dei campi profughi dei Saharawi e del Camerun, per dotare gli alunni non solo di strutture informatiche e tecnologiche basilari per utilizzare il computer ma anche di quelle competenze indispensabili per “connettersi” con il mondo».
«Il diritto all’educazione – prosegue Mennini – è un diritto fondamentale. Dal 2006, infatti, Diritti+Bambini è portavoce dei diritti negati dei bambini attraverso iniziative sociali a Roma e a Caserta (favorendo la scolarizzazione dei rom; sostenendo i minori stranieri non accompagnati), progetti di sensibilizzazione e di informazione nelle scuole romane e, ovviamente, e attraverso spedizioni nei campi profughi e l’accoglienza e l’assistenza medica, nei periodi estivi, di giovani Saharawi a Roma. Ma i Saharawi, purtroppo, stanno passando di moda – denuncia il presidente di Bambini+Diritti – per cui è importante che il mondo dello spettacolo, dei media e delle istituzioni torni a puntare i riflettori su questa emergenza umanitaria e sul diritto dei 170mila saharawi presenti ancora nei campi all’auto-determinazione, all’indipendenza e al riconoscimento della propria identità come individui e come popolo».
Da qui l’importanza di «formare i Saharawi in loco – sostiene Alfonso Molina, direttore scientifico della Fondazione Mondo Digitale – per permettere alle giovani leve e agli adulti di vivere nei campi con dignità e per aiutare un popolo, sostenuto per l’80% dagli aiuti umanitari delle agenzie Onu, Echo e dalla cooperazione internazionale, a preservare la propria storia, identità, lingua e cultura. I Saharawi, attraverso questo progetto devono essere collegati con il mondo per promuovere la propria causa. Si tratta – conclude Molina – di un primo passo verso la libertà e la giustizia. E questa mostra rappresenta proprio un mezzo per dare voce e visibilità ai volti e ai racconti dei Saharawi, troppo spesso dimenticati nel deserto. Per ricordare agli altri, cioè a tutti noi, che i Saharawi esistono».
Non a caso dunque «la mostra – ricorda Gianni Paris, presidente del XV Municipio e sostenitore dell’iniziativa – è stata inaugurata in occasione della Giornata Mondiale dei diritti dell’uomo. È importante ascoltare gli individui e saper mediare tra le richieste dei singoli e le necessità di una collettività. Mettere al primo posto le persone, il loro diritto a vivere in luoghi belli, armoniosi, con spazi per incontrarsi e socializzare, è una delle sfide ancora appassionanti. Una foto in particolare, con un fondo molto scuro e in primo piano la mano di un bambino intento a scrivere – prosegue Paris – credo sia esemplificativa del progetto che stiamo portando avanti. La possibilità di studiare per questi bambini fa la differenza. Da noi, quella dei piccoli, si chiama scuola dell’obbligo. Ma in quella mano non c’è nessun obbligo a scrivere. La delicatezza di quella fotografia rappresenta tutta la solennità di un diritto strappato e conquistato».
11 dicembre 2009
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